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Il 3 gennaio 2021 Francesco Bolognese avrebbe compiuto 35 anni. Per chi non lo sapesse, venti anni fa il Bolo è stato capitano del Gispi fino alla categoria under 17 e capitano del gruppo U19 dei Cavalieri Vice Campione d’Italia nel 2004. A lui è intitolato il Torneo che ogni anno apre la stagione del Superchallenge U.14.

A lui è dedicato anche questo racconto che ricorda un amico sincero, scomparso troppo presto.

Il Bolo placcava sempre alle gambe

Il Bolo ci ha fatto diventare adulti il 17 agosto del 2005. Francesco Bolognese detto Bolo, perché un nome corto è più facile da ricordare quando chiami uno schema in cui lui, il capitano di una squadra da leggenda, deve prendere la palla e accelerare al massimo per conquistare la linea del vantaggio.

Il Bolo in spogliatoio era un barone. Mica aveva bisogno di alzare la voce. Una battuta al veleno era sufficiente per attirare l’attenzione della squadra e rompere il ghiaccio. Questo però succedeva solo il lunedì, il mercoledì e il venerdì dalle 18 alle 21. Perché la domenica mattina a partire dalle ore 11 fra quelle quattro mura sbertucciate dello spogliatoio, dove il tanfo della latrina e il profumo dell’olio canforato si mischiano in armonica sintonia, calava il silenzio. Stavano per entrare nel tunnel emotivo del pre partita. Ventitrè ragazzetti diciassettenni, incapaci di radersi la barba.

Il Bolo come tutti i capitani aveva i suoi riti scaramantici. Le scarpe ben ingrassate, il vicks vaporub spalmato sotto le narici, le fasciature ai polsi. L’Albe accanto a lui non faceva eccezione, pensieroso sugli schemi, ma attento che niente dell’equipaggiamento fosse fuori posto. Il Giova due panche più in là non tradiva emozioni. Lui era nato concentrato. Enrico invece non stava fermo un attimo, la palla era la naturale estensione della sua mano. Sembrava di essere dietro le quinte della Scala prima della prima, solo che al posto di Puccini si recitava uno spartito pieno di collisioni, dove la marcia trionfale arrivava forte ed intonata solo alla fine di ottanta minuti.

Ogni calcio d’inizio di quella stagione era preceduto dal classico discorso in cerchio, un pit stop che in tutte le squadre di rugby separa il pre partita dall’adrenalina del gioco. Se in spogliatoio tutti hanno uno spazio per sistemare la borsa, dentro il cerchio tutto questo spazio si riduce. Prima, durante e dopo la gara parlano soltanto i pochi giocatori che tengono le redini della squadra. Non è oligarchia. Si chiama sport. Anzi si chiama rugby, che è quella disciplina in cui diventi un leader solo se dai l’esempio pensando agli altri prima che a te stesso. Lo sanno tutti, e i gregari accettano di essere gregari perché comprendono benissimo che non è una forma di sottomissione. Anzi. Significa rispettare un mosaico di competenze che sta in piedi e funziona solo se ognuno fa la sua parte.

Il Bolo non aveva il dono naturale della sintesi, ma in quei momenti essere dei professori di letteratura non serve. L’avversario è a 20 metri da te, schiuma di agonismo come te. Il capitano ha il dovere di stuzzicare i sentimenti del gruppo di cui è il capobranco. E il Bolo questo lo sapeva fare benissimo. In quel cerchio c’era chi sentiva la paura dell’errore, sudava, e chi invece se ne stava lì sornione, coi calzettoni abbassati e la chewing gum in bocca. Paul da Cecina, era fra questi. Leader silenzioso a cui le parole d’effetto non servivano. L’arbitro fischiava l’inizio delle ostilità e lui le palle invece di strapparle dalle mani degli avversari le tirava fuori in prima persona, in ogni fase del gioco, senza bisogno che qualcuno glielo chiedesse.

Il campionato 2003/4 parte forte. Si inizia a Padova, che come città sta al rugby un po’ come il Mortirolo sta al ciclismo. E’ una cattedrale in salita dove puoi entrare solo con i dovuti ossequi. Eppure quella squadra non è costruita per piegarsi a capo chino e pregare gli avversari di avere pietà. Là davanti in mischia ci sono dei ragazzi che prima di vedersi sconfitti sputerebbero sangue. Gano, Giulio, D’Angelo Manzo, Frankie, Sacco, Mario, Tarozzi. Una banda che suona forte, un gruppetto di temerari che se ne frega dei nomi altisonanti che si trova a fronteggiare. Frankie poi ha quell’indole orgogliosa tipica dei ragazzi tutti d’un pezzo che ti obbliga a portargli rispetto. O ci vai d’accordo o ci fai a cazzotti. I padovani ci fanno a cazzotti, ma la partita la vincono i ragazzi di Prato.

E come Padova cadono anche Noceto, Genova, Venezia, Calvisano, Rovigo, Treviso. Le squadre forti del nord Italia sono costrette a lasciare strada ad un gruppo duro come un blocco di marmo in cui i contrattacchi di Dario, le mete dei due Tommy, le fughe dello Ianna, si sposano perfettamente con le percussioni del Giova, i placcaggi di Nicchini, con i recuperi del Barbieri e con le cannonate al piede di Rambo.

Solo così sarebbe una squadra da fare invidia ai migliori manuali di team building. Invece i ragazzi capitanati dal Bolo fanno di più. Vivono la città da protagonisti, costruiscono una splendida ragnatela di relazioni, sono la meglio gioventù. E poi basta che lo Ianna, Tommy e Nicchini si mettano a raccontare le peripezie del sabato sera e in pullman scatta la magia. Anche se il pathos del cerchio pre partita non lo puoi riprodurre fra i sedili sgangherati di un bus, quelle risate autentiche sono un toccasana, diventano l’ingrediente che facilita la vita a Romano, l’allenatore. Un uomo ruvido e carismatico che ha capito immediatamente di avere per le mani una scuderia di cavalli pronta a galoppare più veloce delle altre. Più veloce anche di quanto non pensino gli scommettitori. Non c’è un Varenne fra loro. Sono tutti purosangue votati alla causa. E lui ai suoi cavalli vuole bene anche se non gli risparmia il frustino, perché ha capito che in quella pista affollata possono arrivare fino alla vittoria solo se ben stimolati.

Il Bolo invece i compagni di squadra li incoraggia, li scuote, perché ormai non è più la stagione per tirarsi indietro. Il campionato va verso la fine e i suoi compagni devono sfidare i rocciosi coetanei de L’Aquila. Se saranno bravi ci sarà una finale scudetto da giocare a Rovigo contro l’aristocrazia del rugby italiano: avversario il Benetton Treviso. Una squadra che lo stile ce lo ha addosso ancor prima che nel nome. Due gare di semifinale toste come la coccia degli abruzzesi e due vittorie bellissime, inaspettate. Si giocherà per il tricolore.

A Rovigo lo spogliatoio del Battaglini puzza meno del solito, il campo è un tappeto, le tribune sono imponenti e gremite. Una cornice che il Bolo e tutto il gruppo fanno fatica a reggere. Il cerchio stavolta scricchiola, le gambe tremano, il Bolo si emoziona, il resto della squadra sente i propri nomi annunciati dall’altoparlante. E’ la prima volta per tutti.
A cinque minuti dal fischio di inizio suonerà l’inno di Mameli. Siamo nello sport dei grandi, anzi nel mondo dei grandi. Quella dimensione in cui devi imparare che le sconfitte della vita saranno sempre di più delle vittorie. Treviso si veste da nobile signora del rugby italiano e rimette la chiesa al centro del villaggio. Benetton 34 , Prato 3. Una disfatta.
Il Bolo non deve spiegazioni, sa che i ragazzi hanno spremuto ogni singola goccia di sudore e questo lo rende un capitano orgoglioso. Sarà per il prossimo anno.

Appena 12 mesi dopo la squadra c’è ancora. È il Bolo che a campionato finito non c’è più. Se ne va quando il fischio finale della sua vita dovrebbe essere ancora lontano. Ci inchioda di fronte alla realtà della morte proprio mentre siamo un gruppo di adolescenti che sta iniziando ad apprezzare lo splendore lunare della vita. Il Bolo da Iolo ci ha fatto diventare adulti. Il Bolo è ancora oggi la parte migliore di noi.

Valerio Bardi

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